di Luciana Castellina
Finalmente il Parlamento italiano sembra aver capito il senso, sempre stravolto, del concetto di “dittatura del proletariato”. Lo ha fatto varando una legge che introduce quelle che, con definizione più accattivante, vengono chiamate “quote rosa”. La assai abberrata indicazione comunista, ormai scomparsa dal vocabolario politico di ogni parte del mondo, voleva affermare che per riportare nella società un po’ di uguaglianza bisognava introdurre una riparazione storica, una forzatura, che facesse diga all’inerzia che avrebbe altrimenti inevitabilmente riportato le cose al punto di prima, quali che fossero i principi invocati. Una disuguaglianza transitoria, insomma, per conquistare eguaglianza effettiva in prospettiva. Esattamente quanto si intende fare ora imponendo per legge una misura che appare antiugualitaria in quanto discrimina i maschi, tagliandoli fuori dal diritto di accedere a tutti i posti di un cda o altro, anche se ugualmente capaci delle donne candidate a quelle cariche, o addirittura migliori di loro. Mi rendo conto che la mia interpretazione dell’accaduto incontrerà fiere proteste, ma non vedo di che altro si tratta se non di un intervento simile a quello che era stato invocato dalle rivoluzioni proletarie e che, laddove i partiti comunisti andarono al potere, introdusse corsie preferenziali per operai e contadini nelle università e nelle rappresentanze politiche. I tanti abusi coperti nel corso dei decenni in nome della “dittatura del proletariato” hanno reso il concetto tanto impopolare da esser stato abbandonato da tutti i PC ancor prima della caduta del famoso muro. Le quote rosa saranno invece assai meno pericolose, anche se in questo caso lo stravolgimento della regola avverrà probabilmente per una via opposta: i cda e affini verranno a tal punto allargati per far posto al genere femminile senza intaccare il consolidato potere dei maschi che finiranno per contar sempre di meno, mentre le vere decisioni verranno prese dietro le quinte.
Ma ben vengano le rose. Anche se dispiace che una innovazione come questa, proprio perché ha un alto valore simbolico, viene un po’ offesa dalla proporzione fissata dalla legge, che sancisce nell’immaginario collettivo l’idea che le donne restano pur sempre una minoranza, sebbene non lo siano. In Cina, subito dopo la Rivoluzione, adottarono una misura simbolicamente più corretta: alle donne una quota pari al 51 per cento, per riscattare millenni di esclusione. Ma anche lì, come si sa, non è andata troppo bene. Come ai proletari, almeno per molti versi, dopo la rivoluzione sovietica.
Benissimo, comunque, alla dittatura riparatrice delle donne. A condizione di restare assai vigilanti e coscienti che se non si cambia lì organizzazione intera della società non basta il riconoscimento di qualche diritto. (Ad memoriam: le donne manager di alto livello sono negli ultimi dieci anni ovunque aumentate, ma mentre i loro colleghi maschi al 95% fanno figli, loro partecipano alla riproduzione della specie solo al 30%).